“Shitz – Pane, Amore e… Salame”: tragicomica pièce ai confini della bulimia

Shitz - Pane, Amore e… SalameSi chiude così come è iniziato, con tre persone sedute attorno a una tavola dinanzi a un enorme osso spolpato, Shitz – Pane, Amore e… Salame, il sardonico allestimento diretto dal giovanissimo regista siciliano Filippo Renda, con il quale il gruppo Idiot Savant ha fatto irruzione alla XIV edizione del festival Primavera dei Teatri. Tratto da un testo di Hanoch Levin (poeta e drammaturgo di punta del teatro alternativo israeliano, morto di cancro all’età di cinquantasei anni nel 1999), questo lavoro è intriso di demenziale creatività e cinismo ebraico distillati attraverso un alambicco drammaturgico di cechoviana memoria. Che senso ha l’esistenza dei protagonisti, ovvero una famiglia ebrea composta dal padre Shitz (Mattia Sartoni), dalla madre Setcha (Mauro Lamantia) e da Shpratzi (Valentina Picello), la figlia zitella da condurre al matrimonio a qualunque “sottocosto”, magari con lo scaltro Tcharkés (Matthieu Pastore). La loro icastica fisicità assurge a grammatica del grottesco mantenendo ben riconoscibili i legami con la realtà. Dall’Ubu roi di Alfred Jarry al micidiale quartetto di ragazzacci di South Park, da Gargantua e Pantagruele di François Rabelais alle deformazioni espressioniste di George Grosz, sono innumerevoli le metamorfosi di significato che s’avviluppano attorno a questa pièce. Disturbando ancora una volta la quiete eterna di Čechov che amava ripetere “la vita è una battaglia persa fin dall’inizio”, sulla scena si susseguono, in asincrono col seppur minimo accenno di armonia e affetto famigliari, episodi di quotidiana crudeltà e brani musicali di allegorica levità (di cui l’Elogio delle patatine cristallizza il momento di più “alta” poesia), accompagnati dalla chitarra di Simone Tangolo. Ingenerando convers-azioni agite da un’umanità sull’orlo della catastrofe, sgangherata e volgare, sembra – e in effetti lo è – che l’unica forma di (r)esistenza sia un’atavica fame, intesa nell’accezione più ampia e abbietta del termine, le cui sfumature di senso fagocitano le risate del pubblico attraverso l’interazione di due elementi fonda-mentali: il dramma e l’acido corrosivo dell’ironia. Allora, forse, l’unica cosa che ha ancora senso è continuare ad amare, pur sapendo che produce distacco e sofferenza. Ma amare chi o cosa? Per rispondere a tal quesito ci viene in soccorso un celeberrimo aforisma del pluricitato Anton Pavlovič che suona come un implacabile epitaffio: “se temete la solitudine, non sposatevi”.

Lascia un commento