“La Piramide!”: Copi e il varietà della catastrofe

LA PIRAMIDEGiocava spesso Copi sull’interpretazione del nomignolo che si era dato, all’occasione spiegando che voleva significare “pollastrello”; e allora la sua identificazione con il pollo ottuso, eterno sconfitto interlocutore della Donna seduta, famosa strip che lo rese celebre pubblicata su Le Nouvel Observateur (in Italia ripresa su Linus), diventa più comprensibile. Altre volte raccontava che «vuol dire uno che copia e io sono un plagiario, come tutti». Fatto sta che Raul Damonte Taborda (questo era il suo nome di nascita), autore drammatico, attore e disegnatore franco-argentino, rimane una delle figure più emblematiche, irriverenti, poetiche, autoironiche del Novecento. Proprio un suo testo, La Piramide!, inaugurò una stagione “illuminata” del  Mercadante Teatro Stabile di Napoli (sembra quasi preistoria) che, insieme al Nuovo Teatro Nuovo (idem), produsse lo spettacolo diretto ed interpretato da Arturo Cirillo. Questa recensione la riporto al presente, come molte di quelle che ripropongo su questo blog e che se sono accadute mesi o, addirittura, anni addietro. Popolato da stralunati personaggi – un topo petulante, un’improbabile regina cieca, una principessa  erotomane, un ambiguo gesuita, un acquaiolo omosessuale, un turista svagato, una vacca sacra – La Piramide! è un atroce varietà circense che riproduce con surreale humour noir la fine di un mondo: al centro della pièce c’è infatti la distruzione dell’impero degli Inca, assunta come metafora dell’eterna smania occidentale di soggiogare e annichilire intere civiltà per avidità di ricchezza (oro giallo o nero è solo una differenza di colore) e di potere. Un teatro, quello di Copi, che risente molto della “lezione” di Ionesco, di Beckett, di Adamov, soprattutto per quel caleidoscopio di incomunicabilità attraverso il quale egli ci fa osservare i suoi personaggi (uomini e animali) che lui, comunque, faceva risalire a Čecov perché «aveva introdotto sulla scena un tempo teatrale di silenzi». Ebbene, Arturo Cirillo, attore e regista di acuta personalità e raffinata percezione del grottesco, si misura con questo autore attraverso un allestimento che riesce a trattare i temi gravi e angoscianti di cui è intriso questo atto unico (proposto nella traduzione di Luca Coppola e Giancarlo Prati) con distacco derisorio e fulmineo, cadenzando dialoghi e silenzi, entrate e uscite con ritmi da vaudeville. La mimica del corpo e del viso, così come le intonazioni della voce dei protagonisti, dallo stesso Cirillo (Il Topo) a Gea Martire (La Regina), Monica Piseddu (La Principessa), Rosario Giglio (Il Gesuita), Salvatore Caruso (L’Acquaiolo), Fabio Palmieri (Il Turista), oltre a Paola Mannoni che ‘presta’ la sua voce alla Vacca Sacra, sono assurdamente scandite da espressioni e movimenti che fanno assomigliare non solo le membra ma anche l’anima ad un ingranaggio meccanico che rappresenta l’essenza dello spirito dell’uomo così come della crudeltà co(s)mica. Se in prima istanza leggere Copi può significare porsi il problema della regia, intesa come principio estetico di unità degli elementi dello spettacolo e della sua autonomia in quanto fatto artistico, la ricerca di un’autonomia linguistica, estetica ed espressiva nella scansione registica di Arturo Cirillo pone in essere l’autenticità del dettato profondamente anti-ideologico di Copi. Pur indugiando entro suggestioni mutuate da suoi  precedenti lavori (leggi lo scarpettiano Mettiteve a fà l’ammore cu me! e L’ereditiera di Ruccello) La Piramide! fonde in unità tutte le sue componenti e non limita la propria struttura ad atteggiamento mimetico, semplicemente trapiantando sul palcoscenico i simboli letterari o figurativi. A questo proposito è particolarmente indicativo l’elemento scenico dominante: la piramide, costruita solo con quattro tiranti gialli che suggeriscono la forma in assenza di volume. Il simbolismo, quindi, è la risultante non di un sovrappiù di significato aggiunto al valore mimetico dell’oggetto scenico, ma funzione della crisi dell’oggetto stesso, del suo risolversi nella pura spazialità. La visione, grazie all’intuizione scenografica di Massimo Bellando Randone, non viene semplicemente vista, ma coinvolge ogni livello percettivo, così come accade per i costumi lisergici di Gianluca Falaschi, le musiche di Francesco De Melis, il disegno luci di Andrea Narese.

 

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