“La pecora nera”: l’icastico universo narrativo di Ascanio Calestini

ascanio_celestiniL’inesauribile ‘miniera’ di parole attraverso le quali Ascanio Celestini edifica la memoria vivente delle sue storie questa volta ci porta dentro l’istituzione manicomiale. Nello spettacolo La pecora nera/elogio funebre del manicomio elettrico – una coproduzione della Fabbrica con lo Stabile dell’Umbria – l’icastica capacità di Celestini di suscitare immagini, sensazioni, pensieri, palpiti di irrazionale emotività sin da subito rapisce l’incauto e avventuroso spettatore, con tutto il suo vissuto, per farne l’ostaggio cannibalico di una spirale narrativa dolorosamente coinvolgente. «Sono morto quest’anno» appare scritto a caratteri ulnari sul piccolo separé che delimita lo spazio scenico: al centro l’immancabile seggiola di legno dell’affabulat(t)ore e, un po’ in disparte, la sagoma di un manichino dalle fattezze muliebri. Ecco gli unici confini di una storia che inizia nei “favolosi Anni Sessanta”, tra il “sapore di sale, sapore di mare”, il cremino Algida e le caldarroste, i primi acerbi innamoramenti e il vestito di carnevale sdrucito. Qui  alberga un disagio ignorato e acuito dalla pigra distrazione dei cosiddetti normali. Qui si definisce e purifica, lontana mille miglia da ogni apologia del malato di mente, l’altitudine creativa di Celestini. Qui penetra la sua indagine: un lungo lavoro antropologico, per raccogliere testimonianze di quanti hanno vissuto e patito il manicomio. Commovente. Come la voce di un poeta recluso per 42 anni, e di cui ogni tanto udiamo la testimonianza. Spiazzante. Per i pregiudizi che, inconsciamente, ogni spettatore è portato a ripudiare. Folle. Nella metafora dissacratoria adoperata per ridimensionare una stolida sacralità, dove la santità diventa condizione di tutti, e persino il direttore di un supermercato può essere Gesù Cristo. Tra frammenti narrativi sussurrati in penombra, e la luce riverberante che accompagna questo rito monologante, Ascanio Celestini riporta in vita un passato quotidiano di una società declinante la propria umanità in “prodotti di qualità” che il parossistico consumismo ci ha imposto sotto forma di slogan: fiocchi di mais col gallo sempre sorridente, pasta dalla confezione blu e dall’etichetta rossa che non scuoce (quasi) mai, yogurt dal gusto vellutato, cioccolato solubile che piace a grandi e piccini… Il manicomio di chi riesce ancora a sognare, allora, è un po’ meno triste se paragonato al vuoto assoluto di chi trascorre la propria esistenza a reclamizzare caffè in un supermercato. Non siamo poi tanto diversi noi, con le nostre esistenze scandite dai ritmi dei format televisivi, nutrite dai cibi cucinati in un minuto e mezzo, riempite di frottole U.S.A. e getta. Questo isolamento dalle sensazioni è peggio del manicomio o forse è, semplicemente, il nostro manicomio.

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