L’incontro “incompiuto” con il cineasta cileno Raúl Ruiz

Prese il via dal fuori fuoco (volontario) della pellicola di Fritz Lang Gardenia blu l’incompiutezza indotta e provocatoria che condusse alla mia intervista con il regista cileno Raúl Ruiz (scomparso nell’agosto del 2011). L’incontrai a Procida nel corso di una jam session organizzata nell’ambito de Il vento del cinema, il festival diretto da Enrico Ghezzi in stretta collaborazione con Fuori Orario. Monumentale la sua opera che non ha uguali nella storia del cinema contemporaneo, espressione del pensiero e dell’energia della poetica di un autore da sempre generoso, eccessivo, visionario. Titoli come La Maison Nuncingen, (in)fusione di humour nero, atmosfere surreali e delirante bellezza, Agathopedia, ispirato allo spirito d’avanguardia del gruppo belga presurrealista e protodadaista degli Agatopedisti o Días de campo sono solo alcuni degli oltre cento film girati da Ruiz dal 1967 (anno in cui realizzò El tango del viudo), che il pubblico di cinefili incalliti o semplici fruitori di un’arte in via di semplificazione hanno potuto vedere proiettati. Ecco un estratto da quell’intervista.

Quale rapporto intercorre tra la compiutezza e l’incompiutezza sul grande schermo?

«Non esiste un film compiuto, è un luogo comune clamoroso. In tal senso ho sviluppato una metafora che consiste del paragonare un film ad un corpo che è mutilato “sempre”, a volte manca una mano, altre le dita o il naso, quindi incompiuto. Il corpo del cinema esiste come esistono le membra fantasma e nel cinema vi è la possibilità poetica, molto stimolante, di giocare con questo elemento».

La scrittura del video ha ucciso la memoria del cinema?

«Il problema della memoria va insieme al problema dell’immaginazione, dunque del film che non c’è e che immaginiamo. Nelle pellicole tradizionali noi abbiamo una sequenza di ventiquattro fotogrammi al secondo e così quando vediamo un film di due ore in realtà noi vediamo un’ora di buio, di nero. Cosa è questo nero assoluto? Si possono dire delle cose in questo nero che è disperso nel film? Attraverso questo territorio noi proiettiamo il “nostro” film che ci ritorna come un oggetto parallelo».

Che grado di im/mobilità permea i suoi film? 

«In genere quando faccio un film lo penso nel senso narrativo dall’inizio alla fine e alla rovescia e anche, olisticamente, dall’inizio alla fine molte volte fino ad avere la quintessenza, il numero 5 di Pitagora. Un film ha una molteplicità di elementi, di equivalenze, di risonanze che fanno in modo che esso debba immobilizzarsi in questo momento. Se l’immobilità è di buona qualità allora l’opera ha una certa compiutezza che non sarà mai assoluta».

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