“Svet”, il Vangelo e il dramma dell’incoerenza

Tolstoj_54_3508_54_3508Vorrei parlarvi oggi di un dramma, quello incompiuto di Lev Tolstoj E la luce splende nelle tenebre (pubblicato nel 1912 e mai rappresentato prima in Italia), tradotto e adattato da Danilo Macrì – che ha riveduto il quarto atto e completamente scritto il quinto in base agli appunti lasciati dall’autore – proposto dalla Compagnia del Teatro Stabile di Genova per la regia di Marco Sciaccaluga. Affatto autobiografica, la storia gravita intorno alla figura di Nikolaj Ivanovič Saryncev che, in seguito alla morte della sorella, si dedica a tempo pieno alla lettura dei Vangeli, a predicare il Cristianesimo, a disinteressarsi dei sette figli, a delegare alla moglie Mar’ja ogni decisione relativa al loro futuro e a proporle infine di assecondare la sua volontà di donare tutte le loro terre ai contadini per andare a vivere nell’isbà del giardiniere. Due sole persone lo ascoltano e ne saggiano gli insegnamenti: un giovane prete ortodosso e il principe Boris, il fidanzato della figlia Ljuba. L’allestimento di Sciaccaluga è intriso di spunti e provoc-azioni, e può essere ipoteticamente scisso in tre momenti. Il primo, centrato sul problema dell’(in)giustizia sociale. Il ricco protagonista, impegnato a “restituire” i suoi beni ai contadini, suscita l’opposizione e lo sgomento del suo entourage. Il secondo verte sul problema dell’obiezione di coscienza al servizio militare e più in generale dell’atteggiamento verso lo Stato, e qui è il giovane Boris a scontrarsi con la struttura militare russa, che lo spedisce in manicomio. Il terzo rappresenta il “precipitare” delle forze contrarie, le tenebre, per il quale Saryncev, sconfessato da tutti, decide di andarsene da casa. In un ultimo drammatico gesto di “incoerenza” egli ne sarà distolto dalla moglie, prima di essere ucciso dalla madre di Boris, che lo accusa della rovina del figlio. La provocazione da raccogliere è allora questa: la società moderna è meno ingiusta e violenta di quella russa del XIX secolo? E la Chiesa vive il Vangelo? Tolstoj fu portatore di una visione moralistica del Cristianesimo, ridotto al Discorso della Montagna, mentre il complesso dei dogmi cristiani, custoditi dalla Chiesa,  rivela una struttura inutile, atta a dividere gli uomini ed occultare il Vangelo. Svet è il dramma di una fortissima volontà di coerenza che si vede disperatamente condannata a non potersi rendere effettiva. Saryncev non teorizza. Agisce. E paga in prima persona. Eppure la sua scelta non riesce mai a soddisfarlo perché non pienamente corrispondente al suo ideale. La sua prima grande incoerenza è il cedere la proprietà dei suoi beni alla moglie, invece di darli ai poveri. Di fatto egli si autoaccusa di ipocrisia: pur non possedendo più nulla è sempre dentro la vita agiata di prima. Anche il suo voler fare il falegname sembra poco più che un gioco: “i signori devono provare tutto”, gli fa notare con acume (in)volontario un servo. Sotto la spinta di una festa sfarzosa data in casa dalla moglie, che lo fa sentire fuori luogo e ancor più fallito, Sarynzov decide finalmente di andarsene. Tutto è pronto per la grande avventura della coerenza, quando un ultimo colloquio con la moglie lo fa rinunziare. La volontà di coerenza è sconfitta per l’ultima volta, prima di soccombere sotto un colpo di rivoltella di una donna che ha visto il proprio figlio rovinato dai suoi idealismi. Per lui essere coerente è questione di vita o di morte, esaltazione o fallimento. Il punto sta qui: la coerenza è l’idolatria di se stesso. Buona la prova di tutti gli attori (molti dei quali diplomati presso la Scuola di Recitazione dello Stabile genovese), da Vittorio Franceschi, nel ruolo sofferto e patetico del protagonista, a Orietta Notari in quello della moglie; da Fiammetta Bellone, che ben delinea la parabola discendente della principessa Čeremšanova, ad Alice Arcuri (Ljuba), Lisa Galantini (la sorella di Mar’ja), Gianluca Gobbi (il giovane prete), sino a Flavio Parenti alle prese con la fragilità e l’inflessibilità di Boris. Efficace, infine, la decisione di mutare il finale rispetto alla indicazioni dell’autore. Laddove negli appunti tolstojani il protagonista prova  a emergere dalla tragedia in una luce positiva (prima di morire lui scagiona la madre di Boris dicendo a tutti quelli che sono accorsi di essersi sparato da solo, per errore), Sciaccaluga e Macrì lasciano che sia l’eco dello sparo l’ultimo suono udito. Come dire, in principio non fu più il Verbo.

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