Licia Maglietta: una voce dalla “prigione”

4444644195_9c7e277275Oscillare sul filo della vertigine, con il desiderio di fuggire, di sottrarsi a tutto. Un’ebbrezza di movimento dolce e implacabile. Un impulso, un richiamo dei sensi, d’amore e passione che postula legami indissolubili e necessari tra distanza/assenza e memoria tattile dei suoni, delle parole, dell’altrove. Molteplici e ardite metafore legano la voce/parola della scrittrice e regista algerino-francofona Assia Djebar al movimento libero del corpus linguistico nello spazio coperto dalle pagine del suo romanzo Vasta è la prigione (1995),  dal quale Licia Maglietta ha tratto la sua lettura scenica. Scrittrice precocissima – i suoi primi quattro romanzi, La soif, Les impatients, Les enfants du nouveau monde e Les alouettes naïves, li scrive di getto nell’arco di dieci anni, dal 1957 al 1967, poco più che ventenne –, la Djebar passerà i dieci anni successivi in un silenzio/afasia che si rivelerà sofferta germinazione delle sue opere mature, audace messa a nudo del legame tra vicende private e pubbliche, tra biografia e Storia. In quel viaggio di silenzio, Assia Djebar fa tuttavia il giro del suo territorio ed elabora la sua estetica: da lì in avanti la sua scrittura si giocherà nel rapporto oscuro tra il “dover dire” e il “non poter dire”, tra volontà di “conservare le tracce” e “impossibilità di dire”. E se chi scrive compie esplorazioni, fluttua tra distanza e invenzione di sé, tra spaesamento e polverizzazione, e, nel tentare di tenersi in equilibrio tra questi due estremi, pratica l’arte impalpabile del volo, così, chi tenta di tradurre queste sensazioni attraverso la lettura impudica della scena, quest’arte può solo sfiorarla. Perché in quel corpo a corpo con la scrittura di Vasta è la prigione (pubblicato in Italia dalla Bompiani, nella traduzione di Antonietta Pastore, nel 2001), il porsi come lettori-narratori, sebbene a farlo sia un’attrice dalle indiscutibili capacità interpretative come Licia Maglietta, pone nella condizione di trasformarsi in strumento del discorso amoroso, del codice intimo, del lessico delle emozioni e dell’erotismo. Affinché la voce possa penetrare la scrittura, e non semplicemente sfiorarla, bisogna lasciarsi inondare di cielo e silenzio, di luce e buio, rivelare/si e sottrarsi al “non-detto”, quella “specie di bianco che si indovina tutt’attorno alle cose”, abbandonare il corpo e la voce a un movimento non solo di fuga nei sensi, perché di breve durata sarà l’illusione della seduzione.

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