Antonio Latella “dipinge” la sua Medea

StudioMedea_300Medea&Figli, episodio centrale del trittico attraverso il quale il regista Antonio Latella ha dato forma e sostanza al suo Studio su Medea, possiede un fascino e un’intensità comunicativa che travalica il tempo, la parola, lo stesso Euripide, da cui geneticamente deriva. Si materializza come una sorta di schermo televisivo scosso dalla devastante forza delle sue proprie immagini. Echi della follia politica neocolonialista di Bush si sovrappongono all’universo trash, l’oblio della pubblicità alle devianze sessuali, lo stordimento generazionale agli “ismi” razziali o religiosi. Ecco allora che la nudità dei corpi “in tensione” di Nicole Kehrberger (nella foto), Michele Andrei, Emilio Vacca, Giuseppe Lanino, le loro movenze animalesche, le sembianze ferine, i suoni gutturali emessi come declinazione di un linguaggio in cerca di una sua forma “compiuta” ci conducono alle soglie di quell’Occidente “al tramonto” nel quale Antonio Latella sembra “dipingere” questo Studio. Ed è proprio lo spazio vuoto del palcoscenico ed il vuoto della gabbia/recinto/cornice dei letti di pesante metallo, col loro risuonare sordo, definitivo ogniqualvolta vengono assemblati e smontati, e poi nuovamente ricomposti e scissi, a costituire la misura di tale annientamento (oltre che il minimale ma tremendamente efficace “scheletro” scenografico), come in una deformante proiezione post-industriale del mito di Sisifo. Accade così che siano proprio i personaggi dei figli a connotare in maniera ancor più netta la contrapposizione tra i due mondi: quello primitivo, animalesco, barbarico di Medea e la Modernità impersonata da Giasone. I figli, da principio legati alla madre a filo doppio, crescendo iniziano ad affrancarsi, ma solo per finire contesi tra le influenze opposte dei genitori e delle rispettive culture. Il loro passaggio all’età matura non può allora che compiersi con una masturb-azione, il cui orgasmo coincide con la caduta di quelle maschere da infanti sino ad allora indossate per trasformarsi, poi, repentinamente in cadenzata marcia militare sfociante in una muscolare partita di football/rugby/calcio. La consapevolezza della propria sessualità è speculare a quell’esplosione di aggressività fecondata da un’ostilità (in)sanabile solo attraverso la guerra. Si fiutano, si riconoscono Medeios e Alchimenes: Si confrontano senza bisogno altro che il rimbalzarsi contro le lettere dell’alfabeto greco. Eppure il loro non è soltanto gioco e sfida. E’ il produrre nella pratica linguistica una progressiva separazione tra la vista, il suono e il significato. Cioè la metafora teatrale che Latella adopera proprio per simboleggiare il culmine del cammino evolutivo dei Figli, impegnati allo spasimo nel vigoroso dipanarsi dello sviluppo, attorcigliati all’armatura di quei letti entro i quali iscrivere il proprio ferale destino. Uniti, fratelli, fino al momento in cui la loro stessa Madre (stupefacente e commovente per sensualità, brutalità, poeticità, crudeltà, la Medea di Nicole Kehrberger) li riaccoglie nel suo abbraccio, facendo loro indossare nuovamente quelle maschere neonatali, allattandoli con amore, addormentandoli e, silenziosamente, senza visione di sangue, fallace agonia o  parossistico acme, uccidendoli nel sonno. Quindi purifica i loro corpi ormai inermi spruzzando fuori dalla bocca lo stesso latte che li ha nutriti, infine asperge se stessa. Ella è nuovamente Medea. Me-Dea. Poi le luci lentamente declinano.

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