Werner Herzog: un esploratore con la cinepresa

Werner-Herzog“Non c’è un cineasta al mondo così intensamente installato al centro della catastrofe, nell’occhio del ciclone cinema, come Werner Herzog”. Prendiamo a prestito questa definizione di Enrico Ghezzi nel tentativo di far comprendere (o ‘inquadrare’) la vulcanica personalità artistica del regista tedesco. E’ affatto complesso descrivere i suoi film e le sensazioni che la loro visione ingenerano nello spettatore. Per cui preferiamo che, seppur nel breve spazio di un’intervista, sia lui stesso a parlarcene.

Qual è la sua idea di ‘catastrionfismo’?

«Mi sono reso conto che molti dei miei film contengono gli elementi della catastrofe e del trionfo. In particolare Apocalisse nel deserto, pellicola del ’92 che racconta lo spegnimento dei pozzi petroliferi dopo la guerra in Iraq, è evidentemente un film che si colloca in questo ambito. Avevamo solo quattro settimane prima che i pozzi fossero spenti e nessuna autorizzazione a fare riprese. Poi ho incontrato Paul Beriff, grande regista e direttore della fotografia inglese, che doveva recarsi anch’egli in Kuwait per delle riprese ma che ancora non sapeva precisamente ‘cosa’ filmare. Così gli proposi di diventare il mio direttore della fotografia mentre io avrei diretto il film che, invece, avevo già esattamente in mente. Lui accettò e in undici giorni abbiamo realizzato questo lavoro»

Che reminiscenze conserva di quella straordinaria “apocalisse”?

«L’impressione più forte è quella sonora. Quegli incendi erano alti centinaia di metri e il loro rumore era così assordante da poter essere paragonato a quattro Boeing che decollano contemporaneamente. E poi il calore impressionante. I nostri microfoni e le suole delle nostre scarpe letteralmente si scioglievano»

C’era un fine ‘altro’ dietro questo devastante racconto filmato?

«Il mio scopo era quello di identificare una verità più profonda di quegli avvenimenti. Per questo motivo, ad esempio, una parte di quello che è il testo narrativo è frutto di fantasia. Io ero alla ricerca di quella che potrei definire “l’estasi della verità”»

Ci può parlare dell’esperienza legata alle riprese de “la Soufrière”?

«Questo film fu girato verso la metà degli anni ’70 in un periodo denso di eventi catastrofici in tutto il mondo. Non fui tanto affascinato dal vulcano di per sé ma da una notizia letta su un giornale in cui si diceva che solo un uomo di colore aveva rifiutato di abbandonare la propria casa»

E poi cosa è accaduto?

«Il vulcano stava per esplodere e quest’uomo viveva proprio sul suo pendio. Quello che mi ha veramente interessato era che, al di là di cosa egli avesse deciso di fare, questa persona aveva maturato un punto di vista e un atteggiamento nuovi nei confronti della morte. Naturalmente poi quando ci siamo trovati lì il vulcano stesso e questa atmosfera di destino che incombeva sono diventati i veri protagonisti della pellicola. Fortunatamente la Soufrière non è mai esploso, nonostante geologi e vulcanologi ancora oggi cerchino di comprendere come ciò sia potuto (non) accadere».

Cosa avrebbe fatto se non fosse diventato regista?

«Forse avrei fatto parte della spedizione nell’Artico… Avrei cercato di attraversare i ghiacci per esplorare dei continenti sconosciuti. Sarei comunque sempre stato alla ricerca dell’ignoto».

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