“Vita mia”: crepuscolo e morte nella drammaturgia di Emma Dante

vita miaLa dimensione tragica della famiglia e la collazione inesorabile con il lutto. Un ultimo tango funebre di una madre e dei suoi tre figli maschi. Della cerimonia è testimone il pubblico, come sovente accade nel teatro di Emma Dante, autrice del testo e regista di Vita mia. Nella mescolanza straziante di crepuscolo e morte viene messa in luce (magari quella tremolante dei ceri) la traccia drammaturgica della Dante che non mette al riparo dalla disperazione. Il suo approccio alla scena è un rituale scomposto di linguaggio musicato dal dialetto palermitano, comunicazione non verbale, fisica, gestuale, di affanni che rafforzano la parola. Nell’esplosione e nell’implosione delle dinamiche relazionali, nel parossismo fanciullesco dei suoi attori – Ersilia Lombardo, Enzo Di Michele, Giacomo Guarneri, Alessio Piazza – s’incrocia la (non) elaborazione del lutto che configura la dimensione emotiva della pièce. Quel senso tragico della vita rigurgitato in scena senza articolazioni metaforiche vede una madre-Madonna che nel pianto trattenuto e negli accessi di nevrotica rabbia riassembla i frammenti del proprio disarticolato e delirante amore in un tentativo di aberrante resurrezione cristica. Dell’incidente/sacrificio – sottolineato dalla tramatura del tessuto musicale, con le vocalità nasali degli straordinari Fratelli Mancuso ma anche col tradizionale sirtaki – non ha nessuna importanza sapere il perché, il dove, il quando: è l’ineluttabilità dell’accadimento a dis-velarsi sotto i nostri occhi. La morte è un cerchio invisibile che s’aggira sopra, sotto e attorno all’unico elemento della scenografia, un talamo-catafalco illuminato dalle luci rarefatte di Christian Zucaro. Poi ci sono Gaspare, che probabilmente non  lavorerà mai; Uccio, un po’ ‘abbonato’, e Chicco, il più irrequieto, con la passione infantile per la sua logora bicicletta e per il Palermo. Scherzano tra loro, si scagliano in una danza connotata da giovanili pulsioni sessuali, con i loro sdruciti pigiami di flanella a buon mercato, e rimandano alla memoria gli episodi della loro r-esistenza: il carnevale, i travestimenti, i giochi… Lentamente lo spettatore penetra nei gangli di questa famiglia del Sud, si ritrova testimone di una storia, ne scopre dinamiche, tensioni, desideri, frustrazione, dolore, rassegnazione. I corto circuiti della memoria si trasfigurano, così, in un tempo mitico, ossia ‘discontinuo’ che non accade, cioè, lungo una progressione rettilinea, ma si coagula nell’evento. In tale concezione emerge il riferimento, sempre vivo e pulsante nella drammaturgia di Emma Dante, alla tragedia e al sistema delle sue convenzioni che sfocia nella catarsi finale.

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