Quello di Alessandro Bergonzoni è, a prima vista, un autentico corpo a corpo con il linguaggio. Una lotta dove la realtà è bandita dal suo universo mentale. Le frasi s’imbizzarriscono, s’inceppano, s’incazzano, si trasformano in turbinanti spirali di senso da cui sembra impossibile immunizzarsi. A questo allude anche l’eloquente titolo Predisporsi al micidiale attraverso il quale Bergonzoni travolge la barriera del significato primevo di un’idea o di un concetto rivelando sotto la corteccia dell’apparenza un proliferare di sensi “doppi, tripli, quappi”. Egli, come un jazzista che suoni be-bop, sembra procedere per improvvis-azioni, modulando significati assolutamente imprevedibili ed affatto esilaranti. Le frasi retoriche, i proverbi, i luoghi comuni diventano irresistibili trampolini per acrobazie sempre più azzardate, sberleffi a raffica, impennate di caustica in-sensatezza. L’unico sbocco di questa irriverente eversione sintattica è il collasso della logica, un caos burlesco e folle che trova respiro nella precisione quasi aritmetica del suo linguaggio. Allo stesso modo anche gli sviluppi narrativi e i personaggi (il tenore “Orzino in tazza grande”, i “dovoni”, i “quandoni”, i “che cosandi”) della mastodontica Opera in cinque o più atti (!), da lui scritta e raccontata agli spettatori, sfuggono a ogni possibile utilizzo, essendo rigorosamente casuali e cozzando volutamente contro il muro dell’elogio dell’imprecisione e dell’invenzione arbitraria. «In lirica il capezzale è un letto con le mammelle, mentre «l’Orchestra parte per un crescendo e non torna più». Dal melodramma si transita per l’educazione delle giovani generazioni ed al concetto lapidario che «Ai bambini non bisogna dare tante certezze, bensì una sola la certezza: che vi è solo incertezza». Come nei suoi spettacoli passati (da Le balene restino sedute a La cucina del frattempo, da Zius ad Anghingò e Madornale 33), e forse in maniera ancor più evidente in questo monologo, Alessandro Bergonzoni disintegra le leggi della sintassi con la forza d’inerzia di un’incoscienza alla deriva, seziona i lemmi, fa slittare una vocale, elide un’iniziale, fa incetta di parole tronche. Esprime solidarietà per «Il dolore del nano che si vede crescere solo unghie e capelli»; perplessità per «Il rapinatore che entra in B(i)ancaneve ed intima ‘Nani in alto!’»; ma anche legittimi desideri come quello di «Voler sporcare il coro delle voci bianche» o «Metter una benda su un occhio per poter vedere finalmente le videocassette pirata». L’unico risultato possibile è l’inevitabile coinvolgimento del pubblico in una sorta di round pugilistico lungo quasi due ore dove l’unica regola è non avere regole: la sua comicità si nutre della possibilità di creare infiniti universi paralleli, tutti ugualmente sconclusionati ed autarchici, abitati da battute a vario tasso d’idiozia e d’intelligenza, ma sempre orientate verso una liberatoria esaltazione del pensiero.