“La sfida”: il bar delle anime inquiete

elena-bucci-585x400Desassossego, ovvero il perno instabile attorno al quale gravita l’universo di Fernando Pessoa. Quella strana forma di indolenza che impone l’esigenza di un radicale spossessamento e dove l’inquietudine si fa parola mettendo a nudo l’anima. Malgrado l’uso di eteronomi – di cui quello di Bernardo Soares, protagonista dell’opera incompiuta Livro do Desassossego, è la somma che li comprende tutti -, è operazione tutt’altro che facile (e per niente indolore) prendere congedo da sé, rinunciando volontariamente all’inalienabilità del personaggio incarnato. In tale difficoltà è incorsa anche Elena Bucci (fondatrice, con Marco Sgrosso, della Compagnia Le belle bandiere) fascinata da tali eteronomi pessoani così come dalle molteplici visioni atemporali evocate da Virginia Woolf – e qui ci viene soprattutto in mente il romanzo Orlando e la stupenda versione cinematografica con Tilda Swinton e la regia di Sally Potter – al punto da (con)fonderli nella creazione di Autobiografie di ignoti, progetto interamente ambientato in un bar (o in una moltitudine), di cui la prima parte ha per titolo La sfida. Crea varie personalità esprimenti piccoli concetti di libertà la Bucci, che s’aggira tra una coppia di tavolini vissuti in questo luogo quasi metafisico, in un continuo scarto gestuale sull’orlo del quale s’innestano brandelli poetici da Urlo di Allen Ginsberg («Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…») o frammenti di canzoni di Luigi Tenco (“Mi sono innamorato di te”), Gino Paoli (“Senza fine”), Claudio Baglioni, Nick Cave. Attraverso le loro parole scopriamo come tutti i personaggi siano degli “account” di se stessa e al contempo traiettorie di incontri, a volte implodendo, altre l’esatto contrario, nei rumori e nelle deform-azioni sonore del contrabbasso di Roberto Bartoli e del piano elettrico e del violino di Dimitri Sillato. A far da sfondo agisce il silente interloquire del “barista” Gaetano Colella la cui decelerata sequenza di semplici gesti (stappare una bottiglia di vino, versarne il contenuto in un bicchiere, etc.) si trasforma in una sorta di specchio nel quale i medesimi personaggi riflettono la  propria identità. «Per creare mi sono distrutto – scriveva Pessoa – mi sono così esteriorizzato dentro di me, che dentro di me non esiste se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati brani». In questo pensiero s’incarna la performance di Elena Bucci sebbene i suoi eteronomi non sempre siano sorretti da uno stile e da un’introspezione psicologica che ne scinda i caratteri, vanificando, nel dipanarsi della messinscena, il senso di quella “sola moltitudine” che alla lunga rende asfittica la fruizione emotiva di questa pur intelligente oper-azione teatrale.

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