Una crasi tra gli aggettivi italiani e albanesi dà origine Italianesi, titolo del monologo di Saverio La Ruina andato in scena nell’ambito della XIII edizione di Primaveri dei Teatri, festival (in “fioritura tardiva”) organizzato da Scena Verticale. Profondamente dolorosa è la vicenda (dis)umana che ne definisce e purifica la drammaturgia; affatto ispirata è la volontà di ristabilire un orizzonte di senso a un episodio colpevolmente rimosso dalla Storia attraverso l’odiosa pratica di revisionismo che, con beffarda periodicità, riduce a mero oblio tragedie di immane vastità. Ambrogio Guarneri e Pierino Cieno. Chi erano costoro? Facciamo un salto indietro nel tempo. Dall’armistizio del settembre ‘43 ci è voluto quasi mezzo secolo per legalizzare e attuare il rimpatrio dei cittadini italiani vittime del regime dittatoriale comunista albanese dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si scoprì che al dittatore Enver Hoxha fu data mano libera di trattenere d’autorità un imprecisato numero di lavoratori “specialisti” nonché le imprese considerate come indispensabili alla ricostruzione del Paese: questa clausola verrà interpretata in modo estensivo e a tempo “indeterminato”. Solo a seguito degli eventi del 1990, cioè il crollo dei regimi comunisti dell’Est, quel rimpatrio divenne realtà. Ecco svelata, in parte, la loro vicenda della quale Saverio La Ruina, con intensità devastante, ci rende poetica testimonianza. Ne ricuce (espressione non solo metaforica perché il personaggio narrante di Italianesi è un sarto) i brandelli d’esistenza attraverso un percorso dove flashback e ritorno al presente agiscono sul racconto con cinemato/grafica puntualità, addensandosi attorno alle parole in un alfabeto di privazioni e umiliazioni, speranze e delusioni, innamoramenti e separazioni di chi, suo malgrado, ha visto consumare la propria (r)esistenza nella speranza di ritrovarsi. La comunità italiana ha dovuto fingere di non esistere, ha dovuto fingere di non avere una memoria storica, ha dovuto smettere di sognare un futuro di identità culturale maturata in piena libertà. Dava fastidio all’orecchio stolidamente vigile del regime sentire parlare la lingua italiana, diventata un simbolo fortemente significativo della civiltà occidentale. Non poter parlare la lingua madre, doverla studiare di nascosto, quindi smarrire l’elemento essenziale di una identità culturale, ha generato solitudine e frustrazione assolute. La possibilità che Saverio La Ruina ha colto è stata proprio quella di mostrarci tutto ciò, con parole, gesti, segni, silenzi. La sua scrittura e la preziosa attitudine a comunicarla in forma recitativa hanno restituito, amplificandolo, ogni più intimo frammento di dignità a tutti quegli “italianesi”. E di questo gliene siamo profondamente grati.