Viaggio nella “Terra di nessuno” con Harold Pinter

Mario_Sala_e_Gigio_Alberti_2_light_foto_DorkinE’ sicuramente uno dei testi più emblematici e di inestricabile complessità Terra di nessuno di Harold Pinter, dramma rappresentato per la prima volta all’Old Vic di Londra il 23 aprile 1975 con la partecipazione di due immensi attori quali sir John Gielgud e Ralph Richardson. La vicenda ha luogo nel corso di una notte e di un giorno e vede Hirst, uno scrittore famoso dedito all’alcool, isolato in una metaforica no man’s land, ospitare un malconcio poeta, tal Spooner, che cerca invano di ingraziarselo. Quest’ultimo sembra non rendersi conto che l’isolamento di Hirst non è solo geografico ma soprattutto temporale: egli, accudito da due particolari servi/padroni, si è ritirato nel mondo irreale del passato ricreato dalla memoria. Molte domande si affacciano alla mente di chi assiste a questa pièce, nell’allestimento presentato dal Teatro Out Off di Milano con la regia di Lorenzo Loris e la traduzione einaudiana di Alessandra Serra. Una, però, prevale su tutte: perché Hirst ha invitato Spooner? Solo per condividere con un compagno una sbronza notturna? A tratti emerge un’antica quanto ambigua amicizia tra i due, che affonda le radici ai tempi dell’università, a Oxford; in altri momenti, invece, sembra che non si conoscano affatto. Di certo le risposte assolute non fanno parte dello stile oscillante tra fisico e metafisico di Pinter che proprio nel momento in cui ci si avvicina ad esse ne sposta l’orizzonte. L’unica certezza è la “stanza” e il suo simbolismo (non a caso The Room è il titolo della sua prima commedia), luogo in cui i dialoghi e le azioni si espandono ed implodono con un effetto spugna. E’ qui che i personaggi, quello immemore di Hirst è interpretato con fantasmica verve da Gigio Alberti e quello logorroico di Spooner da un bukowskiano Mario Sala (mentre i ruoli di Foster e Briggs sono ricoperti con estrema caratterizzazione da Alessandro Tedeschi e Massimo Greco), vengono confinati da Harold Pinter. Finché, a un certo punto, la stanza viene subdolamente penetrata da un individuo, una voce, un elemento di minaccia che la minuziosa regia di Loris, sottraendo alla pièce ogni residuale matericità del realtà (fatta eccezione per le scelte musicali, ad esempio Shine on you crazy diamond dei Pink Ployd Riders on the storm dei Doors, troppo note e quindi riconducibili a qualcosa di ben definibile per essere funzionali all’astrattezza del contesto) riesce a rendere con a-temporale atmosfera onirica. Una stanza che nella scenografia di Daniela Gardinazzi appare disseminata di libri: centinaia di pagine ricoprono completamente il pavimento e decine di volumi formano anche i mobili d’arredamento, dalla poltrona al tavolino, etc. L’intero allestimento è pervaso e trae forza da un assoluto, ignoto carico di minaccia, un “non esserci” racchiudente in sé le infinite possibilità dell’accadere: ciò che non è, ma che potrebbe essere. E per arrivare a ciò Pinter, a differenza di Beckett, fa largo uso di convenzioni naturalistiche, fissando spesso l’attenzione sul subtesto, i cosiddetti Fehlleistung (o lapsus freudiani), su ripetizioni convulsive, sulla nostalgia e i misteri della memoria che si vanno a intersecare con la storia presente. Questo tradisce i personaggi e perciò lo spettatore è immerso nella lettura delle loro personalità, del loro passato, domandandosi allo stesso tempo cosa accadrà nel loro futuro con una curiosità che sarebbe inappropriata per personaggi beckettiani quali l’Estragone di Aspettando  Godot o l’Hamm di Finale di partita. Questa è la forza delle sue opere e di Terra di nessuno in particolare. Partire da storie comuni di individui inglesi, reietti della società così come borghesi alto-locati, dalla trama talvolta insulsa e senza soluzione, apparentemente così lontane dalla vita reale, che finiscono invece per suscitare la sensazione amara di avere davanti a sé proprio il mondo reale di cui fa parte, quella stessa stanza in cui è rinchiuso.

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