Annie Ernaux e i frammenti de “I miei anni Super 8”

di Francesco Urbano

Siamo agli inizi degli anni ‘70 e Annie Ernaux, allora insegnante, insieme al marito Philippe, segretario comunale, vive ad Annecy, deliziosa cittadina della Francia sudorientale conosciuta come la Venise des Alpes. Sono  giovani, hanno appena compiuto trent’anni, e hanno due figli di sette e tre anni: Eric e David. Alla fine dell’inverno del 1972 decidono di acquistare una cinepresa Super 8 Bell & Howell e, per diletto, cominciano a filmare (in realtà è quasi sempre il marito a farlo). 

Dopo la loro separazione nei primi anni ’80, di quel materiale se ne perdono le tracce finché tempo dopo non viene riportato alla luce dal figlio David che, immaginando un nuovo montaggio ma conservandone la scansione temporale, propone alla madre (ormai scrittrice di fama mondiale) di aggiungere la sua voce, agita attraverso incursioni linguistiche sovente caustiche. 

Si tratta di frammenti di vita quotidiana, pranzi di famiglia, estati con i suoceri nell’Ardèche, viaggi politicamente “orientati” compiuti in giro per il mondo (dal Cile, un anno e mezzo prima dell’assassinio di Salvador Allende e dal colpo di Stato di Pinochet, all’Albania sottomessa alla feroce dittatura di Enver Hoxha, e poi la Spagna, il Portogallo, l’Inghilterra, fino all’Unione Sovietica nell’’81 con Brenžnev al potere). Tutte quelle riprese diventano così un vero è proprio documentario, dal titolo Annie Ernaux – I miei anni Super 8 (distribuito dalla “diversamente indipendente” I Wonder Pictures di Bologna), diretto dalla stessa scrittrice (Premio Nobel 2022 per la letteratura) e dal figlio David Ernaux-Briot, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs della 75ª edizione del Festival di Cannes.  

Nelle primissime scene le espressioni e le movenze di chi incrocia l’obiettivo della cinepresa elaborano una grammatica visiva in nostalgica armonia con quell’epoca ghermita dal tempo. La virginale soggezione dei protagonisti è ciò che maggiormente colpisce in una sorta happening teatrale generato proprio dall’arrivo della cinepresa a creare un cortocircuito all’interno di quel microcosmo privato in un certo senso violato. 

“Un happening – descrive la voce narrante di Annie Ernaux – immaginato da mio marito che mi immortalò mentre tornavo con i bambini dalla scuola e dal supermercato. E’ un momento straordinario felice e allo stesso tempo segnato da una certa violenza”. Difficile è comprendere cosa farne di quel tempo altro scerpato alla loro vita. La cinepresa filma gli arredi, gli oggetti di antiquariato, le carte da parati: tutto ciò finisce per classificarli come “nuova borghesia all’interno di una casa di cui non eravamo proprietari – sottolinea la Ernaux – poiché era l’alloggio di servizio concesso a mio marito”. 

Il primo a filmare fu il marito Philippe che, a parte qualche eccezione, conservò questo ruolo. “Temevo di usare male la strumentazione – prosegue la scrittrice -, all’epoca molto costosa, e forse di violare la divisione dei ruoli in base al sesso che avevamo stabilito all’inizio della nostra vita insieme”. Sin da subito, però, a prendere il sopravvento è il senso profondo delle riflessioni dell’autrice, in quel periodo al lavoro, di nascosto dai familiari, alle sue prime opere narrative (“Gli armadi vuoti” verrà pubblicato da Gallimard nel ’74), in una presa di coscienza in cui la scrittura diviene strumento di emancipazione.

L’elemento più manifesto e immediato che suscita la visione del lungometraggio è la capacità matericamente evocativa, dal sapore retrò, propria del supporto fisico, ovvero la pellicola. Attraverso lo scorrere dei fotogrammi si cristallizza e ci viene restituito un corpus narrativo la cui gradazione emozionale germina in un universo (ana)logico al contempo giocoso e malinconico. Un lavoro non così lontano dal suo romanzo Les années (pubblicato nel 2008) dove le immagini mute s’integrano a una narrazione che attraversa l’intimo, l’ethos comunitario, la Storia, per rendere il gusto e il colore di quegli anni complessi. 

Immagini e testo, quindi, sono funzionali a costruire un’identità e una memoria proiettate verso una (in)decifrabile posterità.Per citare il filosofo Paul Ricœur la memoria è una forma di conoscenza, perché contiene milioni di immagini e di parole. Con un termine informatico, si potrebbe dire che comprende milioni di dati ma, a differenza della memoria di un computer, quella di un individuo si modifica incessantemente, riportando alla luce cose che illuminano il passato o fanno comprendere il presente. 

Così nei sessantuno minuti di questo “docureality” ritroviamo questa funzione: e cioè quella di essere uno strumento di conoscenza della memoria, e dunque del reale.

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