“Il padre” di August Strindberg, quel capolavoro di dura psicologia

499b-g«Un capolavoro di dura psicologia» ebbe a definirlo Nietzsche, amico di  August Strindberg il quale, invece, ne parlava come di «un dramma scritto con l’ascia, non con la penna». L’opera in questione è Il padre, testo fra i più paradigmatici del drammaturgo svedese, scritto nel 1887. Un classico del teatro che torna ad essere rappresentato (con la traduzione di Luciano Codognola) da Umberto Orsini e Manuela Mandracchia, nell’allestimento diretto da Massimo Castri e prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione e Arena del Sole Teatro Stabile di Bologna. Protagonista è il Capitano di cavalleria Adolf, dedito a minuziosi studi scientifici, laico, razionalista. Sua moglie Laura, donna dalla personalità grossolanamente irremovibile e dal carattere deliziosamente antipatico, gli ‘inocula’ nell’animo il seme del dubbio che non sia lui, cioè, il vero padre della figlia Berta, e con metodica perfidia lo spinge alla follia per sostituirglisi nel dominio famigliare ed educativo, tramando col medico per interdirlo attraverso un referto che accerti la sua presunta ‘demenza’. Il ribaltamento del potere col passaggio del controllo della situazione dalle mani dell’uno a quelle dell’altra sembra acuirsi nella fissità delle luci di Gigi Saccomandi e nella sproporzione prospettica e dimensionale della scenografia ideata da Maurizio Balò: una stanza dall’arredamento rigoroso con porta e finestra talmente enormi da trasmettere la sensazione che in qualsiasi momento i personaggi possano venirne fagocitati; nel corso dei tre atti essa ruota in senso orario come il quadrante di un orologio le cui lancette impazzite sono gli attori stessi. Probabilmente il tema dell’antagonismo tra i sessi che tanto angustiava Strindberg poco interessa a Massimo Castri; il rapporto fra i protagonisti si logora tra l’isterica ilarità di Laura e gli accessi collerici del Capitano entrambi, comunque, vagamente parodistici. Ciò che il regista evidenzia è invece il cortocircuito nell’inconscio dell’uomo, gravato dal peso di un ruolo che non gli appartiene. Di quest’ansia se ne libera sotto la sagoma di un opprimente albero di Natale quando, finalmente, può abbandonarsi alla regressione infantile e chetarsi tra le braccia delle tre donne, la consorte, la balia e la figlia, identicamente foggiate, tutte assurte ad ambigue figure materne. Un gioco corrosivo che vede Umberto Orsini quale protagonista ideale: egli modula con consumata bravura le infinite sfumature caratteriali che, in una kafkiana metamorfosi, conducono il suo Capitano dal rigore formale della divisa militare alla fanciullesca vulnerabilità del proprio ‘Io’. Tra i due opposti si collocano il rapporto di “odio et amo” con la moglie (notevole l’interpretazione offerta da Manuela Mandracchia), artefice (in)volontaria ed (in)consapevole della sua caduta; quello con la balia (Gianna Giochetti), madre sostituiva per quel figlio indesiderato; quello, infine, con la figlia (Corinne Castelli) che emblematizza la figura di uomo-bambino ebbro di un’autorità trangugiata come antidoto per le proprie paure infantili. La scena finale, in cui la nutrice fa indossare al protagonista la camicia di forza rimembrandogli il passato, assurge a scarto psicologico dove il padre diviene figlio di se stesso, alla continua, disperante, reiterata ricerca di una figura sostitutiva di madre. Le fasciature della camicia di forza si (con)fondono con quelle che avviluppano il neonato ancora bisognoso di abbracci, rassicuranti ma, al contempo, forieri di morte.

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